Si avvia alla chiusura la personale di Frisco, “Senza volo”, a cura di Maria Arcidiacono, visitabile nella Galleria “GArt Gallery” di Francesco Di Matteo fino a sabato 15 aprile.
Una mostra intensa, profonda, ricca di accensioni, non solo cromatiche. La personale di Frisco è un vis-à-vis o “faccia a faccia” con uomini, donne e bambini; è un hic et nunc in cui si attraversano le vicende, le condizioni, i sentimenti, i drammi dell’essere umano nella contemporaneità delle zone marginali del mondo, degli ultimi degli ultimi, di storie di uomini senza nome. Il “senza volo” è un viaggio ai confini del mondo, ovvero di un artista che osserva, fotografa, documenta e tutto trasporta in una tecnica pittorica avanguardistica negli anni 80, agli albori della street art, fatta di sovrapposizione di strati di acrilico su forme create con scotch di carta – come stencil non riutilizzabili – che generano piani, profondità e tridimensionalità, livelli visivi in movimento, realizzanti le varie oscillazioni della fisionomia viva di ogni essere umano ritratto, brillanti composizioni segnate da contrasti netti di luci, ed ombre.
Un movimento perpetuo che richiama quello dell’anima, nei ritratti, o degli spostamenti collettivi dei popoli delle migrazioni, come accade in Mediterraneo, dove il taglio di matrice fotografica di fatto moltiplica all’infinito il numero delle genti. Uomini donne e ragazzi che portano negli occhi immagini che non possono essere descritte, i cui sguardi raccontano della paura, dell’angoscia, dell’annichilimento, quasi una folla che si spinge per inerzia, in un moto disperato e costretto, che lascia senza scampo alcuno.
“Considerate che cosa richieda l’impresa percettiva di riconoscere visualmente un singolo membro di una specie in un branco, un gregge, una folla. Non solo la luce e l’angolo visuale variano, come per tutti gli oggetti, ma l’intera configurazione della faccia è in movimento perpetuo, movimento che però non influenza l’esperienza dell’identità fisionomica o, come propongo di chiamarla, la costanza fisionomica” (Ernst H. Gombrich, La maschera e la faccia: la percezione della fisionomia nella vita e nell’arte)
Ogni opera di Frisco è una sintesi estrema, resa con sapienti inquadrature, una verità pura e semplice, scevra da interpretazioni, da romanticismi, da possibilità di illusione. Di fatto, traduce una resa di una realtà disincantata.
Il bianco e nero, caratteristico della produzione degli anni 80 – drammatico, potente, assoluto – si alterna ora ad opere in cui invece il colore è acceso, pieno, intenso, predominante.
In Nigeria una bellissima donna nera si staglia su un fondo bianco. La pelle è luminosa come la giacca, lucida e nera; le labbra semiaperte, gli occhi socchiusi. Si mostra al nostro sguardo che si impregna di sensualità, eppure appare indifferente e distaccata. Emerge con forza, dalla neutralità del fondo, l’essenza della fiera personalità del soggetto.
Tutt’altro accade di fronte a Kurdistan. Toglie il fiato all’astante una “Madonna” di blu velata, in netto contrasto con il nero cruciforme dello sfondo, con un kalashnikov stretto sul grembo, iconica immagine di un conflitto in atto, e lei che rimane fissa, con vuoti occhi, senza speranza e senza vita. Immobile. L’arma nera tenuta stretta, obliqua a squarciare la tela, al posto di un Cristo morto, forse morta lei stessa.
Ed ancora Polonia, un bambino attaccato alle sbarre, ricoperto di polvere di ferro, che richiama alla mente le tante immagini di innocenti in zone di guerra, o nei centri di detenzione frontalieri.
Frisco è il nome d’arte di Francesco Cianciabilla, artista, traduttore, insegnante di lingue, globtrotter. Come si legge nella sua biografia, “nel 1983 per una serie di disgraziate coincidenze verrò prima indiziato e alcuni anni dopo condannato per un infamante delitto per il quale ho sempre rivendicato la mia totale estraneità” – si tratta del delitto della “Musa del DAMS”, Francesca Alinovi, critica d’arte ed insegnante del DAMS.
Frisco, nella tua vita hai viaggiato e fotografato molto. Qual è stato il viaggio più importante?
Sono stato in Afganistan 2 volte negli anni ‘80, durante il periodo della guerra con la Russia, mi ricordo di aver passato la frontiera a dorso di un mulo. In India sono stato 3 volte, l’ultimo soggiorno è durato 3 mesi. Tutti i viaggi sono stati importanti, ma in Brasile ho lasciato il cuore. Lì ho vissuto dai 25 ai 31 anni; non ci sono più tornato per la paura di vedere il Brasile con occhi diversi, ormai sono passati 30 anni. Ho vissuto anche in Spagna, ma alcun luogo è il Brasile per me.
L’uso del colore è anche un riflesso dei tuoi viaggi?
In questa mostra il colore è legato al viaggio, ed in realtà in ogni tela vi sono sfumature dello stesso colore, dal chiaro allo scuro. Soprattutto quando c’è folla, prediligo toni forti e decisi.
C’è un intento politico nel tuo lavoro?
Sono sempre stato abbastanza attento ai problemi sociali e comunitari. Sono un attivista politico da quando avevo 16 anni; lo stesso soggetto che scelgo porta ad affrontare una tematica politica e sociale.
Hai vissuto una temperie culturale straordinaria negli anni della tua formazione. Bologna, negli anni in cui frequentavi il DAMS, era davvero ruggente, dal punto di vista artistico; a Pescara eri spesso nella Galleria di Cesare Manzo. Che eredità porti con te?
Agli inizi degli anni ‘80 c’erano tante utopie, sicuramente molte più di oggi, ed anche ideologie. Era un periodo creativo a tutti i livelli, dal teatro, alla musica, allo spettacolo; io stesso ho iniziato come performer. Allora non pensavo di mettermi a dipingere, non ho fatto studi d’arte, al DAMS studiavo Spettacolo, poi Semiotica e Comunicazione di massa.
Eppure la pittura, è quella che è rimasta.
Tante cose rimangono in me, oltre alla pittura. È stato il periodo più formativo. Le ideologie e le utopie le ho ancora. La differenza è che allora sembravano a portata di mano perché eravamo in tanti, ora è rimasto qualche vecchio dinosauro in via di estinzione, come me.
Sei tra gli artisti che Francesca Alinovi definì “Enfatisti”. Ti riconosci ancora in questa teorizzazione?
Oggi non esiste più nessun gruppo Enfatista. È una definizione nata da un gioco per scimmiottare le avanguardie storiche, nei primi anni 80 eravamo dei propulsori. L’attitudine ad enfatizzare, d’altronde, è tipica della gioventù.
Il prossimo progetto?
Voglio imbiancare tutte le tele che ho dipinto. Per cancellare il passato.
Francesco Di Matteo, com’è nata la collaborazione con Frisco? Ci fai un bilancio della mostra che hai ospitato nella tua Galleria?
Ho conosciuto Frisco grazie ad un artista amico comune e posso affermare che è stata una bella esperienza, piena ed arricchente. Abbiamo avuto tantissimi riscontri di pubblico e molta attenzione anche da parte della stampa. Abbiamo esposto il corposo lavoro di un artista importante che, tuttavia, non ha il riscontro che dovrebbe avere, un po’ per il suo percorso di vita, un po’ perché la nostra piazza non è importante. Abbiamo bisogno che il pubblico capisca il vero valore dell’arte e di quanto valga avere un’opera d’arte in casa. Ma la mia Galleria è giovane, ha solo 3 anni di vita, e stiamo lavorando tanto per incidere sul tessuto culturale della città.
La mostra è visitabile presso la GArt Gallery di Pescara, in Via Gobetti 114, tutti i giorni fino a sabato 15 aprile, dalle 17.30 alle 20.00