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Restiamo impassibili di fronte al mare che diviene una tomba, un luogo di morte. E diventa difficile non schierarsi“.

L’arte di Emanuela Barbi non rappresenta il mare, eppure lo rievoca con persistenza. Simboli e metafore lo richiamano, mentre elementi prelevati dal paesaggio marino alludono alla Vergine, al Cristo, e dunque ai corpi sommersi, alle voci rimaste inascoltate, perdute negli abissi. L’arte di Emanuela Barbi è intrisa del suo animo gentile, che permea dai suoi occhi chiari, cristallini, dalla voce piana. La relazione che sussiste tra la delicatezza della donna-individuo-artista, il mare, la storia contemporanea, e l’arte, è davvero molto intima.

Mi accosto all’arte di Emanuela Barbi vivendo nel tempo della crisi climatica, nei giorni della tragedia di Cutro con il “giallo” del «mayday», di uno dei tanti episodi che si susseguono troppo frequentemente, e da troppo tempo, nel nostro mare, nel Mediterraneo. La “culla” della nostra civiltà è divenuta una tomba, e l’Europa, ci appare oggi una matrigna crudele che lascia morire i propri figli.

È una storia che conosciamo bene ma che spesso teniamo separata da noi, categorizzata, in quanto “storia degli immigrati” e non del mondo, con le sue guerre, la solidarietà, le lotte. Troppo spesso non vogliamo che sia storia nostra. L’arte di Emanuela Barbi, che affonda le radici nel mare, ci ricolloca al centro di questa storia, delle catene degli errori e delle omissioni, e lo fa poeticamente, adottando l’estetica del frammento, dello scarto, del residuo, che elevati a elementi simbolici, hanno una forza evocativa potentissima. È quel “lavoro della memoria”, di composizione di relazione tra soggettività e intersoggettività, che emerge dal processo di creazione e rappresentazione artistica. I frammenti divengono di fatto dei “monumenti” che evocano storie dimenticate e a volte rimosse, che ci posizionano rispetto a passato e presente, e rispetto al modo in cui la storia viene scoperta/riscoperta e recuperata per il presente.  Qui non è questione di ricostruire i fatti per seppellirli sotto la lastra di qualche interpretazione, bensì di riattivarli nei corpi e nella sensibilità dei viventi, degli spettatori, avendoli riscattati con il valore dell’arte. È questione di farsi carico degli infiniti corpi spariti nel nulla e di richiamarli attraverso la propria “scrittura” come tracce di una mancanza che tutti li contiene e li significa.

La poetica di Barbi si nutre del lascito di una esperienza sensibile di vita, dell’intreccio arte-natura-vita che le nutre l’esistenza, di una visione non pessimistica né rassegnata del mondo. E accade che di fronte alle sue opere, pur nella consapevolezza che rapporti, accordi ed equilibri politici siano naufragati in orrori, è come se si balenasse per un momento, davanti ai nostri occhi, la possibilità della costruzione di una nuova umanità, sensibile, capace di risposta.

Emanuela Barbi, Tempoceano

Intervista

Emanuela Barbi, la tua ultima esposizione, “Tempoceano” a cura di Antonio Zimarino, è stata esposta nello spazio “Inangolo” di Penne (22.01.2023 / 04.02.2023). Le conchiglie, i detriti marini, le “Veroniche” e la videoinstallazione parlano del mare. Quanto influenza ha nella tua arte il tuo rapporto con la natura e con quanto accade all’interno della natura del mare? Cos’è per te il mare?

Il mio lavoro nasce totalmente dal mare. Sono diversi anni che parlo del mare, d’altronde ci sono nata, e poi ci sono tornata. Ho ripreso in mano questo tema perché in me c’è “Un mare dentro”, per citare Alejandro Amenábar. Il mare appartiene alle mie radici e non è possibile parlare del mare in questo momento senza parlare di morte. Il mio lavoro preferibilmente si orienta più in ambito ambientalista quale sono, perché lo sono sempre stata, fa parte della mia formazione e della mia educazione, ma oggi non si può parlare del mare senza parlare di morte. Tu nomini Cutro ma c’è una morte quotidiana che però lo spettatore, che è quello cui devi pensare quando pensi ad una mostra, lo spettatore questa morte la guarda mediata dalla televisione.

Il titolo scelto per l’esposizione è “Tempoceano”. Perché questo neologismo?

Non è stato facile trovare questo titolo. Con il curatore, Antonio Zimarino, abbiamo voluto un titolo che potesse parlare di questo tema enorme che è il mare, che non si può contenere, quindi ne cercavamo uno che in qualche modo potesse contenerlo, in un tempo, in una dimensione spaziotemporale. E poi ho dovuto scavalcare un altro ostacolo, perché parlare di mare significa parlare di morte, ma è difficile anche pensare di rappresentare la morte.

Emanuela Barbi, Tempoceano, Veronica

Ti riferisci alle Veroniche?

Non rientra nei miei interessi lavorare sul relitto umano e quindi è stato per me importante trovare una metafora, che si sposa molto bene con il concetto della Veronica. Per me la Veronica è una Sindone e quello che io chiamo Veronica è un telo impresso, per cui sostituisco l’immagine del Cristo morto con il mare che muore. E in questo caso c’è l’azione di farle pescare dal basso, dall’acqua, dalla riva, sono tirate su con un filo da pesca e con un amo. Si tratta di una metafora, so che il rimando non è così esplicito. Lo spettatore medio non riesce a cogliere questa metafora, per cui nell’installazione ho voluto inserire anche l’audio, che è il fulcro centrale della mostra. Le Veroniche ne rappresentano più l’aspetto estetico, diventano i teli stampati che danno un valore estetico che può sopperire ad un ragionamento ulteriore, mentre il fulcro della mostra è l’audio.

Nel video “My name is Mohanad Jammo” c’è un fermo immagine in cui accosti una conchiglia all’orecchio, nell’atto di ascoltare. Probabilmente tutti i bambini e anche molti adulti hanno accostato almeno una volta una conchiglia all’orecchio per sentire quello che si narra essere il mormorio del mare. Con te invece ascoltiamo la registrazione di una telefonata, di chi si tratta?

Dalla conchiglia nasce un suono che è la registrazione di una telefonata, o meglio di un “mayday” nel corso del quale muoiono, in diretta telefonica, oltre 300 persone. È la registrazione di un naufragio del 2013 che credo sia ancora oggi il più grande, a cui non abbiamo dato ascolto, cui non abbiamo mandato i soccorsi.

Emanuela Barbi si riferisce a Mohanad Jammo, il medico siriano che lanciò l’allarme nel naufragio del 2013. 268 le vittime del rimpallo di responsabilità fra Italia e Malta. Per 6 ore nessuno fece niente perché entrambe sostenevano che il compito di intervenire fosse dell’altro paese. Il dottor Mohanad Jammo, in questa tragedia, ha perso due figli. La comunicazione è davvero surreale: da un lato 300 persone stanno morendo su un barcone in mezzo al mare, dall’altra una centralinista con un inglese stentato continua a dire “Call Malta”, affermando erroneamente che la costa dell’isola di Malta fosse più vicina.

Ho realizzato questo lavoro nel 2016, quando la telefonata è stata pubblicata. Ma da allora ogni giorno non abbiamo smesso di sentire di mancati soccorsi, per cui è difficile smettere di parlarne. Ancora oggi questo video rappresenta una tragedia a cui assistiamo con indifferenza.

Emanuela Barbi, Tempoceano, part.

Il tuo lavoro propone un rapporto dialettico tra vita e morte, già solo nell’uso della conchiglia. Penso alla mitologia, a Venere che nasce da una conchiglia, o al suono che nasce dalla conchiglia e che reitera perennemente il vitale movimento del mare, ma anche al simbolo della migrazione e del cammino, il simbolo del cammino di Santiago di Campostela è proprio la conchiglia, legato al pellegrinaggio, all’andare, al movimento della gente. Il tuo intento è anche di denuncia?

Ma a chi denunci? Nel mio lavoro confluiscono quelle cose che mi feriscono quotidianamente. Il mio lavoro si radica nel quotidiano, in quello che più mi colpisce e più mi addolora.

Mi piace usare queste forme delicate, come lo sono le conchiglie o i detriti marini, ed il gesto di portare la conchiglia all’orecchio, che comprendono anche i bambini, fa pensare subito al rumore del mare, anche se il mare di fatto non si sente, anche questo è nel mito. Per me più che una denuncia vuole essere un momento di riflessione. Chiamare lo spettatore che si trova immerso in una mostra in cui le opere parlano del mare in tanti modi differenti è un modo per richiamare l’attenzione.

Malta non risponde, Lampedusa non risponde, e le persone muoiono. Mentre guardi queste opere visive, mentre ascolti quella telefonata, sei sottoposto a questa chiamata, non puoi non rispondere.  Per quella minima percentuale di spettatore che cerca di capire di cosa si tratta in qualche modo se lo chiede, “che cosa avrei fatto?”. È mia intenzione sottoporre lo spettatore a porsi dei quesiti, perché non abbiamo il potere di fare denunce, tranne quando andiamo a votare. Il momento arte dev’essere anche momento di discussione.

Il tuo modo di concepire l’arte è anche un invito a compiere un’azione?

L’azione secondo me è già chiamare le persone a riflettere. Siamo circondati da indifferenza. Abbiamo un governo che non accetta il cammino di questi migranti e se la maggior parte delle persone ha votato questo governo, sappiamo che la maggior parte delle persone da cui siamo circondati pensa che i migranti dovrebbero rimanere nelle loro case, non riescono a comprendere le forti motivazioni della migrazione, come le guerre, la fame, la siccità, la violenza, o anche soltanto la volontà di andare a vivere in un altro paese, che già basterebbe. C’è una mancanza di libertà, per cui non so neanche come si possa ancora oggi pensare di poter fermare i grandi movimenti migratori, che sono sempre esistiti ed oggi più che mai è impensabile fermarli. Quindi il mio è un lavoro, ancora più alla radice, contro i confini. È il concetto di confine che oggi non funziona più.

Tanti gli argomenti affrontati con Emanuela Barbi, molti altri quelli da indagare ancora, dal rapporto con la città, con la tecnologia – “Sono poverista, uso materiali poveri, e la povertà non mi impedisce di lavorare” – con la solitudine, delle sue esperienze di vita ed arte anche estreme, al rapporto con il misticismo, al suo non sentirsi una performer, e ovviamente, un’anticipazione del prossimo progetto:

Sono stata invitata da Antonio Zimarino alla Biennale d’arte di Penne, per cui sto lavorando con gli elementi legati al mare, e realizzando altre Veroniche, per continuare ad indagare questa tematica, che è al confine tra la vita e la morte.

Emanuela Barbi, Tempoceano, My name is Mohanad Jammo

Foto courtesy: Anna Voig, Isabella De Luca, Roberto Merlocchi

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