In videoconferenza, all’alberghiero De Cecco l’evento per ricordare la strage di Capace. Con gli studenti del triennio si sono relazionati: il generale Angiolo Pellegrini, uomo di fiducia del pool antimafia di Falcone e Borsellino, ed il magistrato pescarese Anna Rita Mantini
“Falcone ha pensato per tutta la vita a combattere la Mafia con quattro qualità eccezionali: una grande onestà intellettuale, il coraggio di affrontare la mafia che lo odiava, una grande cultura e poi l’essere un uomo libero da qualunque tipo di condizionamento ambientale. Ai giovani ha lasciato la sua grande lezione: per anni è stato schernito, denigrato, ostacolato, oggi dopo 29 dalla strage di Capaci in cui la mafia lo ha ucciso, è però osannato, divenendo un simbolo della lotta senza quartiere contro ogni forma di illegalità e di criminalità organizzata”. Sono le parole con cui il Generaledell’Arma dei Carabinieri Angiolo Pellegrini, Comandante della Sezione Antimafia di Palermo dal 1981 al 1985, ha rivissuto con gli studenti delle classi quarte e quinte dell’Istituto Alberghiero Ipssar ‘De Cecco’ di Pescara, la strage mafiosa in cui trovò la morte il giudice Giovanni Falcone. Un evento, quello odierno, sul tema ‘Il Dovere della Memoria 23.05 Strage di Capaci’, promosso per commemorare l’anniversario dell’assassinio del giudice Falcone nell’ambito del XXVI Premio Nazionale ‘Paolo Borsellino’. Presente all’iniziativa, coordinata dalla Dirigente scolastica Alessandra Di Pietro, anche il Procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Pescara Anna Rita Mantini e Daniela Puglisi per l’Ufficio Scolastico provinciale. Ad affiancare gli studenti i docenti Antonio De Grandis, Renata Di Iorio, Concetta Dell’Osa e Maria Di Virgilio.
“Credo sia evidente l’importanza dei momenti formativi affrontati dal Premio ‘Borsellino’ che ci permette di ripercorrere la storia del nostro Paese – ha detto la dirigente Di Pietro – negli anni ’80, ovvero gli anni delle grandi stragi di mafia, quando in Italia c’era una vera e propria guerra in atto che colpiva lo Stato e gli uomini delle Istituzioni. Da qui l’importanza e il valore della memoria, che dev’essere forte, e l’incontro con i testimoni di quegli anni, come il Generale Pellegrini, per comprendere che non dobbiamo mai cedere le armi all’indifferenza dinanzi alla corruzione, che è forse la forma più grave dell’illegalità”. Quindi la parola al Generale Pellegrini, uomo di fiducia del Pool antimafia di Falcone e Borsellino, protagonista di alcune delle più importanti indagini nei confronti di Cosa Nostra e autore del libro ‘Noi, gli Uomini di Falcone – La guerra che ci impedirono di vincere’. “Falcone – ha ricordato il Generale Pellegrini – è stato pesantemente criticato, era chiamato ‘lo sceriffo’, era denigrato, dicevano che ‘sarebbe affogato tra le migliaia delle sue stesse carte del maxi-processo’. E il 23 maggio del 1992, alle 17.56, esplodono 500 chili di tritolo sotto l’autostrada Punta Raisi-Palermo, all’altezza di Capaci, che uccidono Falcone, la giovane moglie Francesca Morvillo, tre uomini della sua scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cilia, e altri tre agenti e l’autista di Falcone restano gravemente feriti. Fu una strage voluta dalla mafia che odiava Falcone che con il suo lavoro era riuscito a dimostrare in soli dieci anni che la mafia esisteva ed esisteva un’associazione mafiosa, che fino a quel momento era negata, anche dalla politica. Sino a quella data spartiacque si diceva che esistevano i mafiosi, ma non c’era un’associazione mafiosa, anche se c’era una guerra tra le famiglie, i Zarillo, i Badalamenti, con una strage che fece più di mille morti. Se è cambiato il punto di vista delle Istituzioni lo dobbiamo anche a Falcone che nella vita ha ricevuto tante sconfitte – ha proseguito il generale Pellegrini -, è saltata la sua nomina alla Procura generale, costretto alla fine a lasciare Palermo per andare al Ministero della Giustizia dove comunque ideò la Dia e la Procura Nazionale Antimafia, una struttura paragonata addirittura all’Fbi americana. Falcone ha solo pensato a combattere la mafia con quattro qualità eccezionali: una grande onestà intellettuale, perché Falcone era un giudice istruttore capace anche di prosciogliere un indagato quando non trovava riscontro nelle prove; il coraggio di affrontare la Mafia che lo odiava; la grande cultura, da ragazzo passava ore a studiare storia nella biblioteca di casa con una media scolastica dell’8, arruolato all’Accademia Navale perché voleva fare l’ingegnere navale, ma poi scelse giurisprudenza su consiglio del padre ed entrò in magistratura vincendo il concorso senza alcuna raccomandazione, facendo tutta la gavetta come pretore e poi giudice istruttore a Palermo; e poi Falcone aveva il pregio di essere un uomo libero, era libero di indagare il mafioso come il politico, non temeva ricatti. E ha operato in una Palermo dov’era in corso una carneficina, gli anni in cui hanno ucciso il Capo della Mobile Boris Giuliano che aveva intercettato le autostrade del denaro destinato alla Mafia, il Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, fratello del nostro Presidente della Repubblica, il capitano Basile, ucciso alle 2 di notte mentre rientrava in Caserma con in braccio la figlioletta, ucciso da tre killer che alla fine del processo sono stati prosciolti per insufficienza di prove. Venne ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, mandato a Palermo come Prefetto senza alcun potere, e poi il giudice Rocco Chinnici che stava facendo emergere i collegamenti tra i politici e la mafia. Ma Falcone – ha aggiunto il Generale Pellegrini – ci ha lasciato la grande testimonianza della sua vita, la forza di combattere l’illegalità, la consapevolezza che questa guerra riguarda tutti e deve vederci tutti coinvolti. Soprattutto oggi, quando la Mafia è completamente cambiata, non indossa più la coppola e la lupara, ma ha messo la camicia bianca, il vestito buono, e si accompagna ai professionisti, alle lobby. Non spara più, perché ha capito che non conviene scatenare guerre di sangue che attirano l’attenzione dello Stato, ma è meglio lavorare sul riciclaggio del denaro sporco per fare soldi. E per questo quella contro la Mafia è una guerra ancora più difficile”. “Il vero magistrato – ha detto il Procuratore Mantini – da sempre lotta per difendere la propria libertà intellettuale, e la Mafia attecchisce lì dove c’è una magistratura ripiegata su se stessa. Si è liberi quando non si è ricattabili e si è capaci di opporsi alle mille forme di intimidazione, fra cui quelle dei social che hanno aperto la strada all’intimidazione di massa. Quando c’è un’inchiesta sulla politica, si diventa bersaglio di insulti e di offese che riversano odio contro il magistrato. Una consapevolezza che spesso determina anche scelte di vita, come per Falcone che scelse di non avere figli perché sapeva di avere una vita a rischio. Oggi la Mafia – ha ancora detto il Procuratore Mantini – attecchisce dove ci sono due elementi: innanzitutto i soldi, e allora quando vediamo improvvise edificazioni o il proliferare inatteso di attività, spesso può significare che ci sono somme di denaro da riciclare; il secondo elemento è la corruzione politica”. A chiudere l’incontro sono state le domande degli studenti.