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Katia Reginella propone appello contro la sentenza di condanna a 25 anni di reclusione emessa  dalla Corte d’Assise di Macerata il 18 giugno 2014, depositata  il 24 novembre 2014.

Il difensore (avv. Vincenzo di Nanna): non può esservi  pena più severa di quella che le è stata inflitta dalla barbara uccisione del suo figlioletto. Esiste una verità alternativa e di certo più credibile e persino moralmente più comprensibile e accettabile, rispetto a quella proposta dai Pubblici Ministeri ed acriticamente recepita dalla Corte d’Assise, il cui accertamento potrà avvenire solo attraverso il doveroso superamento di suggestioni, emotività e moralismo.

Per di Nanna, in effetti, la ricostruzione dei fatti recepita nella contraddittoria motivazione della sentenza, appare  del tutto astratta dall’anomalo e singolare contesto familiare in cui si sono svolti, benché la stessa Corte d’Assise lo definisca come caratterizzato da reiterata violenza  e maltrattamenti, quando, proprio nel descritto ambiente, quanto mai desolante, doloroso e distruttivo, sempre dominato dalla violenza, avrebbe dovuto esser adeguatamente valutata la posizione dell’imputata, affetta da gravi patologie e da un significativo ritardo mentale congenito.

L’omicidio del piccolo Jason, in effetti, ben può considerarsi solo uno (il più grave) degli episodi dei maltrattamenti consumati dal Pruscino in danno della moglie e dei figli, delitto accertato dalla Corte d’Assise, ma non contestato dalla Procura. 

La figura mostruosa della “mamma assassina”, sapientemente costruita dai Pubblici Ministeri e propagandata da una martellante campagna mediatica, è allora il frutto di un’evidente e grave travisamento dei fatti realizzato tramite la “rimozione”, da un punto di vista processuale, del delitto di maltrattamenti in famiglia, attuata tramite una precisa scelta dei Pubblici Ministeri che, pur riaperte le indagini relative alle lesioni inferte ai precedenti figli della coppia, non hanno poi ritenuto di dover procedere ad una trattazione congiunta dei procedimenti e, non si comprende per quale ragione, non hanno (ancora) contestato al Pruscino la “violenza sessuale di gruppo”, consumata in danno della moglie, delitto la cui prova è stata offerta  dai tre principali “testimoni” dell’accusa.

Secondo il  difensore, è stata così realizzata una vera e propria metamorfosi processuale al punto da trasformare, una povera giovane, affetta da ritardo mentale congenito, vittima di gravi violenze e traumi subiti sin dall’infanzia, nella “scellerata assassina” del proprio figlioletto.

La verità “rimossa” e in ogni caso non adeguatamente valutata, emerge, tuttavia, in maniera prepotente, persino dalla lettura dell’illogica e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata (pag. 70, 46 e 47 sent.) che ha accertato:

…. la Reginella ….. priva di ogni sostegno da parte dei familiari (madre, padre, fratelli) iniziava la vita di convivente more uxorio del Pruscino, subendo condotte violente e maltrattamenti del compagno, oltre all’allontanamento dei due precedenti figli avuti dallo stesso, conseguiti al riscontro di traumi e lesioni sui bambini da parte di servizi sociali. I maltrattamenti familiari subiti dalla Reginella ad opera del Pruscino sono riferiti dalla Reginella negli interrogatori……, sono rievocati nelle conversazioni della stessa con la madre in carcere, sono stati riferiti dal teste Troka ed ammessi dal Pruscino nell’interrogatorio del 16.8.2011, oltreché nelle lettere intercettate in carcere prodotte dal P.M…….

Ma la “metamorfosi” sembra essersi spinta sino al punto di aver ignorato, per i lunghi anni di durata del processo, le pur gravi ed evidenti condizioni d’infermità mentale dell’imputata e così trasformato il giudizio in un’orribile e grottesco esperimento  avente per oggetto una povera cavia umana, come purtroppo dimostra il ricorso da parte dei Pubblici Ministeri, a non corrette e suggestive “pratiche” di conduzione dell’”interrogatorio – tortura” (21 novembre 2011),  al punto da aver determinato il travisamento della verità e l’alterazione – sia pure involontaria – della genuinità delle prove acquisite.

E così, chiare ed evidenti lacune nella memoria, certificate dal diario clinico penitenziario, sono state colmate  con suggestioni e suggerimenti, al punto da far confondere l”accusata, come del resto ben avrebbe dovuto comprendere la Corte dopo l’audizione del (secondo) consulente d’ufficio nominato (prof. Camerini),  che ha definito la Reginella  “strutturalmente suggestionabile, eh, come proprio tratto di personalità”.

L’appello entra quindi nel merito delle accuse, per rimarcare la stretta ed inscindibile correlazione tra il chiaro difetto del dolo di partecipazione nei delitti contestati e  le precarie condizioni di salute mentale dell’accusata (non imputabile), considerato che la colpevolezza o meno, non deve certo esser valutata in astratto, bensì in rapporto alle concrete capacità d’intendere e di volere, compromesse da gravi patologie mentali , e pone la domanda:

se la Reginella ha delle “difficoltà” (incapacità) – certificate da tre diversi periti d’ufficio – nel considerare criticamente le conseguenze delle azioni proprie ed altrui, come si può immaginare che abbia avuto la capacità di scegliere, tra le varie alternative, un programma di azione che, almeno astrattamente, avrebbe potuto salvare il figlioletto dalla furia omicida del Pruscino?

Per il difensore è allora utile rileggere quel passaggio dell’interrogatorio – tortura (21 novembre 2011), giudicato nell’insieme  “particolarmente credibile” dalla Corte d’Assise, nel corso del quale l’imputata asserisce d’esser tornata il giorno dopo la morte del figlioletto nei luoghi dove sarebbe stato occultato “per soccorrerlo” (sic!) e così, finalmente, comprendere che costei, in quei drammatici istanti che hanno caratterizzato il pur rapido ed immediato sviluppo dell’azione omicidiaria, posta in essere improvvisamente dal Pruscino, in alcun modo abbia pensato alla necessità di soccorso, idea addirittura concepita solo il giorno dopo.

Ma la verità “rimossa” è contenuta proprio nei verbali di quelle indagini (archiviate), relative alle lesioni sofferte dal primogenito della coppia e dalla cui lettura si apprende che, nonostante la situazione si presentasse quanto meno grave, tanto da dover comunicare ai genitori il trasferimento del neonato nel reparto di neurochirurgia di Ancona, nel convocare gli stessi, si è presentata da me (medico in servizio presso l’ospedale di Ascoli Piceno) solo la madre adducendo a motivazione che il papà era andato a casa perché aveva dolori alla schiena….

Significativa è la risposta resa dal testimone, sentito nel corso nel corso dell’indagine archiviata:

Domanda: Ha notato se la Reginella volesse velocizzare le procedure di medicazione del figlio?

Risposta: No. Non direi. Mi è sembrato più che altro che la donna non fosse pienamente cosciente della gravità dell’evento.

L’appellante propone dunque l’acquisizione di tale prova “nuova” nel giudizio d’appello:

……. la Corte d’Assise d’Appello lo potrà  fare in virtù dei poteri concessi dall’art. 603 c.p.p. e sarebbe sufficiente leggere i verbali degli altri due processi, inopinatamente archiviati dalla Procura della Repubblica di Ascoli Piceno, per comprendere che è certo ancora possibile ristabilire  verità e Giustizia.

Allora forse potrà esser compresa la tragedia di una madre che, solo a causa di limiti acquisiti sin dalla nascita, non è riuscita a salvare il figlioletto, ammesso fosse possibile.

E allora – così conclude l’appello composto di ben 62 pagine– si comprenderà che non può esservi per costei pena più severa di quella che le è stata inflitta dalla barbara uccisione del suo piccolo Jason.