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“Il problema più grande del nostro Paese è la corruzione, per questo ognuno di noi è chiamato a scegliere cosa essere e da che parte stare. Per scegliere dobbiamo conoscere anche le storie di qualcuna di quelle 970 vittime della criminalità, mafia, ‘Ndrangheta, camorra. Io ho scelto di stare dalla parte della verità, della giustizia, dello Stato e delle persone che continuano ogni giorno a difenderci, per combattere quella mentalità mafiosa che mira a sostituire il diritto con il favore. E lo faccio raccontando, da figlia, la storia di mio padre, Vincenzo Grasso, ucciso dalla ‘ndrangheta il 20 marzo 1989 sotto casa”. Sono le parole che Stefania Grasso ha rivolto stamani agli studenti dell’Istituto Alberghiero Ipssar ‘De Cecco’ nel corso della terza giornata del ‘Premio Nazionale Borsellino’, coordinata dalla dirigente Alessandra Di Pietro.

Ad aprire la manifestazione è stata Maria Egle Spatorno, attrice e regista formata al Piccolo Teatro di Milano, che ha presentato i brani da ‘Donne Coraggio’, uno spettacolo sulle donne che hanno combattuto e ancora combattono contro la mafia, donne che hanno avuto il coraggio di rompere il muro dell’omertà in un sistema che le ha sempre volute figlie, madri, amanti complici, donne che hanno scelto la strada della denuncia esponendosi in prima persona, spesso sino al sacrificio estremo. Agli studenti dell’Alberghiero Maria Egle Spatorno ha recitato la storia di Francesca Serio, madre di Salvatore vittima della mafia, accompagnata da Valerio Valeri che ha suonato e cantato musiche e testi di De Andrè.

“Vincenzo Grasso – ha poi detto la dirigente Di Pietro introducendo l’intervento di Stefania Grasso – era un uomo normale, viveva a Locri, concessionario di automobili. Ha cominciato a ricevere richieste di estorsione nel 1982, lui si è sempre rifiutato di cedere e ha denunciato chi voleva togliergli la libertà di fare impresa e di credere nella giustizia. Dopo 7 anni è stato ucciso, il suo delitto è rimasto impunito, ma da quel momento si è alzata una voce fortissima e Stefania è diventata una testimone di verità, di un’esigenza di giustizia. Il senso del nostro cammino come scuola è quello di ricordare ai nostri ragazzi di non cedere al disincanto, al pessimismo, ma di conoscere e di avere sempre la visione del cambiamento possibile”. “Sulla vicenda di mio padre forse ho sbagliato io – ha esordito Stefania Grasso -: io ero una ragazza normale, andavo a scuola e, anche se vivevo a Locri, in provincia di Reggio Calabria, il paese della ‘Ndrangheta che uccide, ero convinta che non fosse un problema mio, di una famiglia semplice come la mia. Purtroppo il nostro Paese ha avuto tante vittime innocenti di cui non conosciamo il nome, né la storia, ed è un elenco lunghissimo, 970 nomi e non è un elenco completo. L’Associazione Libera, di cui sono Dirigente Nazionale, fondata nel ’95 da Don Luigi Ciotti, ha raccolto, per ciascuno di quei nomi, la storia, coinvolgendo le famiglie affinchè facessimo rete. Nell’anno 1989 c’è il nome di Vincenzo Grasso, era mio padre, un’esistenza normale: aveva dieci fratelli, aveva studiato, ma poi si era dedicato alla sua passione i motori, prima come manovale, poi aveva aperto la sua officina, quindi la rivendita di pezzi di ricambio, di auto usate, nuove e poi di motori per le barche. Papà aveva capacità imprenditoriale, ma nel nostro territorio non si è liberi di fare impresa, e sin dai tempi della prima officina mio padre aveva cominciato a ricevere minacce, ricordo a sei anni i colpi sparati contro la saracinesca di notte. E subito mio padre decise di denunciare e spiegò a me e mio fratello che quella era la strada giusta, non perché fosse un eroe, ma perché era convinto che i soldi che guadagnava lavorando onestamente servissero per far studiare noi. Ma quella della ‘Ndranghetà è gente che si sveglia la mattina e pensa a come fare soldi facili. A 14 anni – ha continuato Grasso – io stessa ho risposto alla prima telefonata di minacce e mio padre mi accompagnò a fare la mia prima denuncia, eppure ancora pensavo che quel problema non ci riguardava con un’indifferenza che forse mi aiutava a pensare che tutto andasse bene. Poi ho scelto di andare all’università a Firenze, e feci una battaglia con mio padre. Quell’anno decisi di tornare a casa per Pasqua, ma anticipai il rientro alla Domenica delle Palme, il 19 marzo, festa del papà. Il 20 marzo ho salutato mio padre, sono andata in piazza per salutare i miei amici, e poi cominciarono a passare le autoambulanze. Con mio fratello tornai verso casa, dove ho visto un’ambulanza fermarsi. Non ci fecero arrivare a casa, ci dissero di andare in ospedale, e fui io a dover dire a mia madre cos’era successo, avevo 19 anni. E lì ho capito che non era come pensavo: siamo tutti esposti, l’indifferenza è forse costata la vita a mio padre. E se oggi continuiamo a pensare che la criminalità sia un problema solo di un territorio, che non sia nostra responsabilità, allora quella piaga continuerà ad allargarsi, solo dall’inizio del 2018 ci sono state altre 9 vittime innocenti. E allora a voi ragazzi chiedo di conoscere, di non restare indifferenti, di portare avanti i valori per i quali tanti si sono sacrificati, è un nostro dovere farlo”. Durante la manifestazione, una studentessa di classe quinta, Indirizzo Sala, Simona Di Giacomo, ha realizzato un disegno raffigurante le tre scimmiette, simbolo dell’omertà colpevole, e l’ha regalato, tra la commozione generale, a Stefania Grasso, mentre lo scrittore Pierluigi Guerrieri ha letto alcuni stralci di uno spettacolo teatrale che partecipa alla Campagna ‘Amori amari’ contro i femminicidi e il docente Graziano Fabrizi ha illustrato il suo progetto ‘Progetto Impastato 599’ realizzato a Penne.