In difesa della memoria collettiva. Mantenere la propria identità culturale nell’era della globalizzazione e della terza rivoluzione industriale, quella dei mezzi di comunicazione: la sopravvivenza delle tradizioni popolari è la vera sfida del terzo millennio. La perdita della memoria e delle lingue dialettali, la generalizzata mancata attenzione delle nuove generazioni verso le tradizioni locali o nei confronti dei lavori tipici rischia di compromettere in modo irreversibile un patrimonio culturale immenso, ma già profondamente scalfito. Si ha tutto a portata di click, il bello e il brutto di una vita che brucia ogni cosa troppo velocemente in una corsa forsennata verso il prossimo step, dimenticandosi del cammino fatto.
“L’oggi è il figlio di ieri ed il padre di domani”, recita un vecchio adagio, ma nell’epoca contemporanea sembra essersi perso il senso delle radici. “Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro”, scriveva in tempi non sospetti l’autore cileno Luis Sepulveda. E nell’epoca moderna è proprio l’irrefrenabile voglia di tuffarsi nel futuro a cannibalizzare tutto. Si guarda al domani senza mai voltarsi indietro, senza ricordarsi il grande patrimonio di usi e costumi che rappresenta, nolenti o volenti, il dna di un intero popolo, pur suddiviso al suo interno da una miriade di molecole diverse e peculiari di ogni zona. L’identità di una comunità, insomma, nel proprio intimo essere. Il patrimonio etnoantropologico di ogni popolo è messo a dura prova dall’incessante progresso tecnologico.
A partire da usanze e giochi che il benessere e l’era moderna hanno spazzato via, fisiologicamente, ogni generazione ha le proprie caratteristiche, anche a livello di costume. «Quando eravamo ragazzi», racconta Ermanno Martinelli, 86 anni, di Torrevecchia Teatina, «eravamo costretti ad arrangiarci per giocare, tra un lavoro e l’altro in campagna. Si giocava al tiro al formaggio, ad esempio. Si legava uno spago a caciotte stagionate di un kg e si facevano vere e proprie gare itineranti per il paese, frazioni incluse. Chi arrivava per primo al traguardo vinceva il formaggio, all’epoca un bene prezioso. Mi ricordo che gli abitanti del paese uscivano dalle case per vedere queste gare e si assiepavano sul ciglio della strada, come se fosse una tappa del Giro d’Italia», sorride. All’epoca era un gioco per bimbi, adesso una disciplina poco praticata nell’ambito della Federazione Italiana Giochi e Sport Tradizionali, riconosciuta dal Consiglio Nazionale del CONI. «Una cosa ben diversa per natura e significato», conferma lo stesso Martinelli poi emigrato in Australia. Dall’altra parte del mondo gli emigranti portarono alcune tradizioni delle loro città natali, poi alcuni, come egli stesso, sono tornati nei rispettivi paesi d’origine. «Venti anni dopo, al mio rientro in Abruzzo, era tutto diverso, i giochi dei ragazzi ed in parte gli appuntamenti tradizionali». Ben prima dell’avvento del web, ovviamente, la metamorfosi era già iniziata. Irreversibilmente. Poi l’avvento di internet e l’alfabetizzazione digitale delle nuove generazioni sin dalla tenera età hanno completato il processo. Non senza incongruenze.
Nelle grandi città ormai si è perso quasi del tutto il comune senso di appartenenza ai riti religiosi o laici dei padri. Una sorta di roccaforte è ancora rappresentata dai piccoli comuni, prevalentemente del sud. Nell’Abruzzo forte e gentile, di stereotipata ma pur sempre veritiera definizione, resistono usanze consolidate nel tempo. Nonostante tutto e pur trasformandosi per non cadere nell’oblio.
Dalla festa dei serpari a Cocullo, un antichissimo rito mutatosi oggi in un appuntamento sacro-profano, alle celebrazioni più marcatamente cattoliche, come la “Madonna che scappa in piazza” di Sulmona o il bue che si inginocchia davanti a San Zopito presso Loreto Aprutino, è l’entroterra il bacino maggiore di conservazione della memoria. Non solo folclore, ma vero patrimonio genetico di un popolo che non vuole smarrirsi. La vendemmia, la trebbiatura, l’uccisione del maiale a e la raccolta delle olive restano un affare di famiglia in moltissimi casi, una vera e propria festa. Ma non basta, non può bastare.
A Francavilla al Mare resiste la secolare tradizione dei “Focaracci dell’Immacolata”, falò che le contrade allestiscono in memoria della Vergine e che vedono la partecipazione di tutta la comunità. Fin dall’antichità i fuochi erano considerati riti di purificazione, di rinnovamento e di buon auspicio contro il maligno e gli spiriti dell’inverno e per questo divenivano elementi di aggregazione sociale durante le feste di fine anno in attesa del ritorno del sole e della stagione primaverile. Nei secoli, con l’affermarsi del Cristianesimo, le feste popolari di origine pagana fusero i loro caratteri iniziatici e misterici con elementi cattolici, affermando così la loro funzione purificatrice non solo per ottenere un buon raccolto ma per mondare la comunità dai peccati. Un appuntamento molto sentito, che apre il calendario natalizio: in ogni quartiere e sul mare, gruppi di cittadini raccolgono montagne di legna da ardere alla quale daranno fuoco proprio alla vigilia dell’Immacolata Concezione, secondo l’antica usanza che prevedeva l’accensione dei falò per illuminare il passaggio della Madonna.
Sempre al fuoco, elemento del Sole, dell’immortalità e della trasformazione, è legata la tradizione delle farchie di Fara Filiorum Petri che si celebra a metà gennaio ma che prevede un lavoro preliminare che parte molto prima. E che qui ha una valenza generata dalla religione. Ogni contrada crea la propria farchia, di circa 1 metro di diametro e circa 8 metri di lunghezza, composta da grossi fasci di canne legati ad arte, manualmente, con rami di salice rosso. Il mito alla base del rituale è fondato su un miracolo di Sant’Antonio abate durante l’invasione francese del 1799 quando, secondo il racconto popolare, il Santo apparve alle truppe francesi, che volevano entrare a Fara, e trasformò le querce che circondavano il paese in fiamme costringendo alla fuga i soldati. Così i faresi il giorno prima della festa del Santo (17 gennaio) compiono una processione all’imbrunire con fiaccole di canne. Uno spettacolo suggestivo che mantiene viva la comunità e la sua memoria, almeno in parte. Serve però una profonda azione di preservazione e valorizzazione della propria identità culturale, delle tradizioni e dei valori che tra una navigazione in internet ed una chat sullo smartphone stanno perdendo la propria essenza nonostante, in modo del tutto paradossale, proprio il web ed i social network in particolare fungano da cassa di risonanza ad eventi prima relegati nello stretto ambito della comunità. Quello che era solo di un paese o di un popolo adesso diventa globale. Basta condividere una foto o un video, si partecipa online alla grande festa collettiva, anche dall’altra parte del globo ed in real time. Ma senza emozione, senza vera partecipazione e spesso senza conoscerne il significato intrinseco. Senza quelle prerogative, insomma, che hanno permesso a riti ed usanze di sopravvivere nel corso dei secoli. L’evento diventa in potenza di tutti, ma comunque di pochi nella realtà. “La tradizione non consiste nel mantenere le ceneri ma nel mantenere viva una fiamma”, sosteneva Jean Léon Jaurès. In alcune zone è proprio vero, alla lettera come a Fara o Francavilla. Altrimenti si potrà sempre vederne il video su Youtube…
Luciano Rapa