Sono anni che sostengo, in lungo e in largo, non solo che l’Europa sia una matrigna, ma anche che non vi sia alcuna solidarietà comunitaria tra i Paesi aderenti. Infatti, a guidare l’azione del Parlamento Europeo non è mai l’interesse di tutti, ma solo quello di tedeschi e francesi, insieme a quello di alcuni grossi gruppi economici. Dopo il pacifico sciopero dei balneatori contro l’applicazione della Bolkestein, però, mi sento in dovere di tornare sull’argomento, scrivendo, a scanso di equivoci, un puntiglioso quanto “pallosissimo” articolo per spiegare come questa Direttiva Europea non sia solo negativa per l’economia italiana, in quanto figlia della “matrigna”, ma anche perché è lontana anni luce dalla nostra storia e dal nostro modo di vedere le cose.
Per fare ciò, dobbiamo innanzitutto riavvolgere il nastro e tornare a poco dopo la nascita della nostra Nazione, e cioè al 1879, quando, per la prima volta, con il Regio Decreto n. 5166, si approvava il regolamento per l’esecuzione del Testo Unico del Codice della Marina Mercantile, nel quale, all’art. 755, il canone annuo per metro quadrato di arenile era fissato in 5 centesimi di lira per i cantieri navali e non meno di 10 centesimi per altri usi.
Tale esiguo costo era dovuto al fatto che quella era certamente un’Italia che già possedeva più di 8.000 km di spiagge, ma era anche un Paese molto povero, in cui oltre il 90% degli italiani era analfabeta e il 75% della popolazione era dedita all’agricoltura. Gli italiani dell’epoca, dunque, non avevano né il tempo né i mezzi per andare in vacanza, tantomeno al mare.
I pochi fortunati che si recavano nei rarissimi stabilimenti esistenti — previsti dal Regio Decreto poc’anzi citato e fatti di “baracche di legno, di tela, di stuoia e simili” — appartenevano senz’altro all’alta borghesia, che quando si recava in spiaggia lo faceva spesso dietro prescrizione medica e non certo per esclusivo diletto.
Con il fascismo, poi, le cose cambiarono perché, piaccia o non piaccia, arrivò la modernità e l’urbanizzazione forzata di intere porzioni della Nazione. Infatti, la creazione dei primi distretti industriali sia nel Nord Italia che nel resto del Paese, unitamente alla nascita dell’Opera Nazionale Dopolavoro, permise alla popolazione di accedere a prezzi accessibili al cinema, al teatro, nei musei, in montagna e al mare. Di conseguenza, vennero rilasciate nuove concessioni balneari per nuove strutture, anche perché lo stesso fenomeno avvenne per i più piccoli: la scolarizzazione forzata della stragrande maggioranza dei bambini, insieme alla creazione dell’Opera Nazionale Balilla, fece sì che in quasi tutte le principali località balneari e montane sorgessero le Colonie Estive.
A tal riguardo è indicativo come, con la legge del 22 dicembre 1927, n. 2535, i canoni demaniali aumentarono rispettivamente, a seconda dell’utilizzo, a 20 e 40 centesimi al mq per l’intero anno.
Il proliferare degli stabilimenti e la costruzione di manufatti sempre più importanti fece sì che, nel 1942, con la promulgazione del Codice di Navigazione Italiano, all’art. 49 si prevedesse, in un’ottica da Stato Totalitario, che: “Salvo che sia diversamente stabilito nell’atto di concessione, quando venga a cessare la concessione, le opere non amovibili, costruite sulla zona demaniale, siano acquisite dallo Stato senza alcun compenso o rimborso, salva la facoltà dell’autorità concedente di ordinare la demolizione con la restituzione del bene demaniale nel pristino stato.”
Ed essendo ancora oggi in vigore il Codice di Navigazione del 1942, ecco perché, ufficialmente, in Italia, gli stabilimenti balneari non dovrebbero essere realizzati con opere inamovibili, poiché qualora il titolare dello stabilimento si ritrovasse senza più la concessione, si troverebbe anche spoglio dei propri investimenti.
Ma se la questione balneare rimase chiara fino alla fine del fascismo, le cose si ingarbugliarono subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Infatti, con le macerie del dopoguerra, il Paese era tornato ai livelli economici del 1879: intere città distrutte, porti, aeroporti, stazioni ferroviarie e fabbriche ridotte in polvere. A seguito di ciò, 5,5 milioni di disoccupati, tra il 1946 e il 1960, lasciarono l’Italia per emigrare all’estero e tentare di rifarsi una vita. Tra questi c’erano anche i sfortunati minatori di Marcinelle, mandati in Belgio dal nostro Governo per ottenere in cambio carbone a buon prezzo. Era, insomma, un’Italia che aveva bisogno di tutto, dalle case al pane, dal vestiario ai servizi.
Così, anche se già dal 1942 era in vigore la Legge n. 1150, che prevedeva che la disciplina urbanistica si attuasse a mezzo dei piani regolatori comunali, nell’immediato dopoguerra, nella necessità di case, ognuno fece quel che poteva secondo i propri mezzi, e molti fabbricati furono realizzati, abusivamente e pur tollerati, su suolo demaniale.
Ma ciò non bastava; occorreva, come detto, il lavoro, e così, sempre nell’arco temporale dal 1946 al 1960, i Comuni, che all’epoca già si occupavano di assegnare le concessioni demaniali marittime stagionali, pensarono bene di assegnare tali concessioni alle famiglie più “bisognose,” che nei primissimi tempi operavano veramente con scarsi mezzi.
Questa procedura fu talmente prolifica che le licenze aumentarono a dismisura, e con esse la capacità di pagare il canone, tanto che con la Legge del 21 dicembre 1961, n. 1501, le nuove concessioni, così come i rinnovi, passarono da un minimo di 30 lire al mq a un massimo di 50 lire per gli usi diversi da porti e cantieri navali. Nel 1981, i canoni salirono ancora da 240 lire a 400 lire al mq all’anno, e otto anni dopo toccarono le 1.600 lire e le 3.000 lire, sempre a seconda dell’uso.
Nel 1989, la situazione era ormai molto simile all’odierna, e mentre il Paese si preparava a diventare la quarta potenza al mondo, le concessioni balneari superarono quota 26.000.
Gli stabilimenti balneari che nel dopoguerra diedero una mano a lenire la fame di tante famiglie, ora erano diventati delle super-imprese che contribuivano alla crescita del PIL e al rafforzamento del settore turistico.
Le opere che, come abbiamo detto, in base all’art. 49 del Codice della Navigazione, dovevano essere amovibili, con la complicità della politica e la reticenza delle Amministrazioni locali, nella stragrande maggioranza dei casi erano diventate opere murarie fisse con tanto di recinzioni in cemento e cancelli.
Così, nell’ottica del cerchiobottismo, si pensò bene di introdurre – con la Legge del 5 maggio 1989, n. 160 – il canone per ogni metro quadrato di area occupata con impianti di difficile rimozione, canone quantificato in lire 3.600 al metro quadro.
Era questo il prezzo da pagare affinché il turismo potesse sopperire alla povertà che, ad esempio, aveva generato nel passato l’Anonima Sequestri. D’altronde cosa sarebbe mai stata dell’economia sarda se, dopo la chiusura del comparto siderurgico, non fossero sorti i complessi turistici nella Costa Smeralda? La Puglia, oggi, potrebbe mai fare a meno del Salento? O l’economia dell’Emilia Romagna potrebbe mai rinunciare all’indotto turistico della Costa Romagnola? E questo giusto per citare tre casi, ma il discorso potrebbe essere francamente applicato a tutti gli 8.000 km di costa italiana.
Fatto sta che anche la più bella rosa ha le proprie spine, e la situazione, da idilliaca, si è incancrenita nel 1992, quando, con una modifica al Codice della Navigazione, è stato introdotto il cosiddetto “Diritto di Insistenza”. Tale norma stabiliva che i soggetti già titolari di concessioni fossero preferiti rispetto a nuovi pretendenti e che le concessioni fossero rinnovate automaticamente ogni 6 anni. In pratica, la legge del 1992 ha di fatto paralizzato l’accesso a nuove concessioni, favorendo la nascita della cosiddetta “lobby degli stabilimenti” che la Bolkestein millanta di contrastare.
Usiamo il condizionale perché la famigerata Direttiva Europea non contrasta nessuna lobby; semmai, favorisce solo l’acquisto delle attività redditizie avviate dai piccoli imprenditori locali da parte di grossi gruppi, sia nazionali che esteri.
È il caso, ad esempio, di ciò che è avvenuto in Veneto, dove si è già provveduto a mettere al bando le concessioni. Nel caso specifico, a Jesolo, il proprietario della “Geox”, Mario Moretti Polegato, è risultato assegnatario di un lotto di tre concessioni, in precedenza riferite agli stabilimenti Augustus, Bafile e Casa Bianca, per un valore complessivo di 7 milioni di euro. Quindi, da tre imprese che gestivano una concessione a testa, si è passati a una sola impresa che gestisce ben tre concessioni. Mi sembra una bella concentrazione di potere, altro che liberalizzazione del mercato.
E se questo è accaduto a Jesolo, che sarà sì una bella piazza, ma è pur sempre sull’Adriatico, con un fondale basso e sabbioso, cosa mai accadrà in Sardegna, in Sicilia, in Toscana, in Liguria, o in Calabria, così come in Campania e in Puglia? Semplice! Lì arriveranno anche grossi gruppi esteri, tedeschi, americani, francesi, inglesi, come sono già arrivati sia in Grecia che in Croazia, e faranno la parte del leone.
In Francia, per ovviare alla Bolkestein, nel 2006 hanno introdotto un Decreto Spiagge che ha imposto delle gare d’appalto per assegnare le concessioni balneari. Qui, grazie a questa legge, le concessioni balneari durano al massimo 15 anni, ed ogni comune costiero deve garantire almeno l’80% delle spiagge libere e gratuite, con tanto di punti doccia e servizio armadietti. La concessione francese costa all’imprenditore balneare transalpino circa 50 euro al metro quadrato, più il 3% del fatturato annuo. Inoltre, quando termina la stagione turistica, tutto deve essere smantellato e riposizionato solo all’apertura della nuova stagione. Ad onor del vero, però, c’è anche da dire che, ad esempio, in Costa Azzurra la stagione turistica non dura 4 mesi come da noi, ma ben 8, cioè il doppio.
Sta di fatto che, con queste tariffe e con questa tempistica, i grandi gruppi, già presenti sulla Riviera Francese, non si sono fatti surclassare da nuovi soggetti e tutto è rimasto come prima. Ma, come detto in precedenza, la Francia ha esigenze ben diverse da quelle italiane. Ad esempio, il fatto che sulla Costa Azzurra l’80% della spiaggia sia libera poco influisce sull’economia della regione, poiché la spina dorsale del turismo rivierasco in quel caso non è data dalle pizzette e dai bomboloni, dall’affitto del pattino o dalla disco nello stabilimento, ma è sorretto dai 10 meravigliosi porti turistici ivi presenti, che danno vita a un turismo esclusivamente di lusso, fatto di lunghe escursioni in barca e nuotate nelle calette. Il contrario dell’Emilia Romagna, insomma, che infatti registra la presenza di più stabilimenti balneari di quanti ne abbia l’intera costa francese.
Ma lusso o non lusso, sono i grandi numeri che muovono le economie. Questo le holding finanziarie lo sanno molto bene ed è per questo che puntano all’Italia, che con la sua tariffa di concessione attuale di 1,29 euro al metro quadrato è veramente la vacca da spolpare, così come lo sono la Spagna e il Portogallo, altri due Paesi che, come il nostro, stanno per cadere nella procedura d’infrazione a causa della mancata applicazione della Bolkestein.
In virtù di tutto questo, un Governo come quello della Meloni dovrebbe fregarsene altamente della Direttiva Europea e limitarsi, come ha fatto la Francia, ad aumentare le tariffe concessorie a cifre più ragionevoli legate al fatturato. Ma perché non agisce in tal senso, benché in passato avesse sposato le ragioni dei balneatori? Forse perché in gioco, in maniera indiretta, ci sono anche i soldi del PNRR.
Infatti, se è vero che la liberalizzazione delle concessioni balneari, di per sé, non è un obiettivo esplicito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, è altresì vero che la liberalizzazione delle concessioni è contenuta nelle leggi sul mercato e la concorrenza n. 118 del 5 agosto 2022 e n. 214 del 30 dicembre 2023, entrambe assunte come impegno inderogabile per ottenere i fondi del PNRR. Insomma, come avrebbe detto Enrico di Navarra: “Parigi val bene una messa!”
Peccato che, come al solito, la nostra classe politica nel suo complesso non sia all’altezza del proprio compito e, al di là degli slogan da social o delle chiacchiere da bar, francamente entrambi deprimenti, nessuno si sia reso conto di come, grazie ai nostri balneatori, abbiano campato, in tutti questi anni, anche i ristoranti, gli hotel, coloro che affittano case e appartamenti, coloro che fanno intrattenimento, ecc. ecc.
È un microcosmo che, tanto più è stato piccolo e a gestione familiare, tanto più ha consentito la diversificazione delle imprese e l’accumulo del capitale in loco. Per dirla in maniera più potabile: se un grande gruppo, una multinazionale, ad esempio, acquisisse una concessione, questa sarebbe senz’altro in grado, in piena autonomia, di fornire da sé tutti i servizi di cui il turista ha bisogno, dall’ombrellone, alla ristorazione, dal pernottamento, all’intrattenimento. E in conseguenza di ciò, l’unica cosa che rimarrebbe agli autoctoni – sempre che non vengano chiamati lavoratori da altre parti del mondo – è il lavoro dipendente, cioè la sola, misera, busta paga.
Insomma, per farla breve, se fossimo più intelligenti capiremmo che la Bolkestein sta all’Italia quanto il bidet sta agli inglesi.
Lorenzo Valloreja